PALERMO,SISTEMA DI LABORATORI PER TESTARE SALUTE MARE

settembre 12, 2007

Palermo, 12 set. – Si chiama Lisa, ovvero Laboratorio intrauniversitario per la gestione dei sistemi acquatici. E’ un sistema di piccoli laboratori dotati di strumentazione tecnologicamente avanzata in grado di indagare ogni aspetto degli ambienti acquatici: mare, laghi e fiumi. Per la sua struttura sinergica, Lisa rappresenta un esempio unico nel Mediterraneo. Il sistema di laboratori e’ attivo da 18 mesi, nel corso dei quali sono stati definiti diversi metodi innovativi per il monitoraggio, l’utilizzo integrato di immagini satellitari per l’individuazione in tempo reale degli sversamenti (accidentali o dolosi) di idrocarburi in mare e di modelli idrodinamici per la previsione del trasporto e diffusione delle chiazze di petrolio. Lisa e’ un progetto finanziato con fondi Pon 2000/2006 dal ministero dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca ed anche dall’Unione Europea per un totale di poco piu’ di due milioni di euro. Il progetto, presentato ieri dal prorettore Giovanni Santangelo, da Fulvio Obici, del ministero dell’Universita’ e della ricerca, Salvatore Mazzola, tutor del progetto Lisa, Goffredo La Loggia, coordinatore scientifico del progetto Lisa, Sebastiano Calvo, direttore del Cisac, e Antonio Mazzola, direttore del dipartimento di Biologia animale, e’ stato attuato dal dipartimento di Ingegneria idraulica ed applicazioni ambientali dell’Universita’ di Palermo. Un progetto che coinvolge anche il dipartimento di Scienze botaniche (laboratorio di Ecologia acquatica) e il laboratorio di Biologia animale.
Per mezzo della barca da ricerca “Antonino Borzi’”, realizzata per il monitoraggio e il controllo della qualita’ delle acque marine costiere siciliane, e’ stato caratterizzato un nuovo indice biotico: Posix (Posidonia Index). Questa pianta marina ci fa dunque leggere il grado di sofferenza delle acque costiere siciliane. Posix e’ uno dei pochissimi indicatori biotici (il primo in Italia) attualmente disponibili nel Mediterraneo.
Fonte: Agi


Al via recupero fondali Palermo. Polizia in campo

settembre 12, 2007

posidonia_oceanica.jpgPalermo, 12 set. – Il nucleo sommozzatori della Polizia di Stato di Palermo sta collaborando alla realizzazione di “Posidonia Oceanica”, progetto programmato dal Dipartimento di Biologia della Facolta’ di Scienze naturali dell’Universita’ di Palermo con il quale si intendono risanare i degradati fondali della costa palermitana. Anni di incurie e di deterioramenti sostanzialmente riconducibili alla presenza di reflui urbani non canalizzati in appositi depuratori, a sovrastrutture portuali e alle conseguenze della pesca a strascico, hanno infatti impoverito flora e fauna dei fondali, minando seriamente l’ecosistema ed i delicati equilibri della biodiversita’. Per fronteggiare l’emergenza dei fondali palermitani si e’ quindi pensato di trapiantare sulle superfici marine impoverite piante recuperate in altre zone del Mediterraneo che non patiscono invece analoghe sofferenze. Notevole a riguardo l’apporto fornito dai sommozzatori della Polizia di Stato che hanno collaborato al trapianto della flora marina ed in particolare della “Posidonia Oceanica”, pianta quest’ultima che per caratteristiche e parametri bene si adatta all’ambiente delle coste palermitane. E’ evidente che la realizzazione del progetto su ampia scala non puo’ prescindere dal monitoraggio degli effetti che il trapianto della flora apporta su una porzione di fondale piu’ ridotta. Questo quello che hanno fatto i Sommozzatori della Polizia di Stato ed i biologi dell’Universita’ di Palermo con un progetto pertanto definito “Pilota”, trasferendo talee e posidonie da Solanto al golfo di Palermo. Ogni due mesi saranno effettuati controlli e monitoraggi sull’area interessata che, se positivi, condurranno alla sperimentazione allargata.
Mrg

Fonte: AGI 


Balene: ancora troppo poche

settembre 12, 2007

balene1.jpgPotrebbe sembrare la storia di un successo, eppure manca ancora un lieto fine. O meglio quello che fino a oggi era considerato un obiettivo da festeggiare, viene in questi giorni molto ridimensionato. Stiamo parlando delle strategie di conservazione della balena grigia del Pacifico orientale. I circa 20 mila esemplari che popolano le acque della California e del Messico hanno fatto finora dormire sonni tranquilli a tutti gli scienziati preoccupati della loro salvaguardia. Certo, rispetto agli inizi del Novecento, quando in seguito alla caccia baleniera se ne potevano contare al massimo un migliaio, le cose adesso vanno sicuramente meglio. Tanto che già nel 1994 la specie è uscita dalla lista statunitense degli animali a rischio di estinzione. Ma non fidiamoci troppo dell’apparenza. 
I risultati di uno studio condotto su base genetica, pubblicato su Pnas (Proceedings of the National Academy of Science), ribaltano l’idilliaco quadro: gli esemplari del periodo pre-caccia non erano 20 mila ma tra i 76 e i 118 mila. L’analisi della variazione del Dna delle balene parla chiaro.
Inoltre gli esemplari che raggiungono ogni autunno la Baja California nel golfo del Messico per riprodursi sono denutriti e in condizioni di salute precarie. E ciò non perché l’ecosistema è al massimo della tolleranza e non riesce più a garantire cibo per tutti, come sostiene la “vecchia” tesi, ma perché i cambiamenti climatici hanno fortemente ridotto lo stock alimentare dei cetacei. Un duro colpo per chi si era convinto che fosse stato finalmente raggiunto il livello storico di popolamento, quello preesistente all’inizio della caccia, e per chi si era spinto addirittura a ipotizzare un rischio di sovraffollamento. Alimentando così le speranze dei cacciatori di vedere aumentate le quote di uccisione consentite (le popolazioni aborigine dei Chukotka hanno attualmente diritto a 124 esemplari l’anno, e i Makah ne hanno assegnati altri 5).
Una richiesta del tutto ingiustificata, sostengono gli scienziati della Stanford University guidati da Liz Alter, proprio perché il numero di balene grigie oggi è molto inferiore al livello storico di riferimento. (g.d.o)

Fonte: Galileo.it


I residui chimici mettono a rischio la sopravvivenza delle orche

settembre 12, 2007

stor_1226784_01440.jpgEra già stato provato per gli orsi, ora tocca alle orche fornire l’evidenza di quanti residui chimici si concentrino nei mari vicino al Polo Nord e di quali conseguenze drammatiche abbiano sugli animali che li abitano. Uno studio dell’Università di Trent in Canada ha accertato che i Pcb, i policlorobifenili, classe di molecole che fino agli anni ’70 fu molto utilizzata per la produzione di lubrificanti, a 30 anni di distanza dal loro bando si trovano ancora in alte concentrazioni nel tessuto adiposo delle orche del Pacifico settentrionale e minacciano la sopravvivenza di questa specie.
I Pcb fanno parte degli inquinanti organici persistenti, sono difficilmente degradabili e si accumulano nella catena alimentare. Nonostante nella maggior parte dei paesi occidentali il loro uso sia stato proibito dai primi anni ’70, la concentrazione di questi residui nelle acque è diminuita di poco. I ricercatori canadesi hanno accertato che almeno fino al 2063 i Pcb saranno rintracciabili nel grasso delle orche e porteranno a una progressiva diminuzione della popolazione di questi cetacei.
Maddalena Jahoda, ricercatrice dell’Istituto Tethys ed esperta di cetacei, spiega che effetto hanno i policlorobifenili sulla salute degli animali: “I Pcb hanno effetto tossico, che riguarda in particolare il sistema immunologico. Qualche hanno fa uno studio fatto su una specie di delfini, le stenelle, mostrò la diretta correlazione tra la concentrazione di Pcb nel grasso degli animali e l’incidenza di malattie. Inoltre i Pcb influiscono direttamente sulla capacità riproduttiva, rendendo sterili o meno fecondi gli animali”.
I Pcb cominciano ad avvelenare le orche prima ancora che inizino a cibarsi di pesci. “C’è un passaggio generazionale di queste sostanze tossiche – spiega Maddalena Jahoda – perché si accumulano soprattutto nel grasso ed essendo il latte dei cetacei ricchissimo di grasso, i Pcb passano direttamente ai cuccioli”. Di fatto, gli animali continuano a passarsi gli uni con gli altri queste sostanze tossiche, come fossero un virus: ne sono contaminati con il latte e poi continuano ad assumerle attraverso le carni degli animali che mangiano.
La situazione è drammatica nei mari intorno al Circolo Polare Artico, ma il problema dello smaltimento di sostanze come i Pcb, il vecchio insetticida Ddt e i Pbde, tuttora usati per rendere ignifughi i tessuti, creano problemi anche nel Mediterraneo. “Le concentrazioni di queste sostanze tossiche sono molto alte nel nostro mare – spiega Maddalena Jahoda, che da anni fa ricerca sulle popolazioni di cetacei del Mediterraneo – l’Università di Siena ha pubblicato una serie di dati che dimostrano che mentre i Pcb stanno lentamente diminuendo, i Pbde, i ritardanti di fiamma, continuano ad aumentare”. Se i Pcb furono proibiti negli anni ’70 fu per salvare gli esseri umani, sui quali hanno effetti dannosi quanto sui cetacei, che sono parenti così prossimi a noi. Ora l’allarme lanciato per orche, stenelle e orsi polari può servire a ricordare che, dato il nostro posto nella catena alimentare, siamo tra le specie a più alto rischio.

Di Cristina Nadotti

Fonte: Repubblica.it


PECORARO: MARE SENZA INVERNO, RISCHIA COLLASSO

settembre 10, 2007

“Abbiamo perso l’inverno e il mare ha pagato il prezzo più alto. L’emergenza mare deve essere acquisita come emergenza nazionale”.
Così il ministro dell’ Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, durante la presentazione di un rapporto sull’allarme clima sul Mare Nostrum presentato a due giorni dalla Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici promossa dal ministero dell’Ambiente e organizzata dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Apat) che si terrà a Roma, al Palazzo della Fao, il 12 e 13 settembre. In particolare, secondo Pecoraro, l’attenzione sul mare “deve essere centrale in tutte le scelte”, e questo sarà uno dei temi che dovrà scaturire dalla Conferenza di Roma.
Secondo il rapporto clima e mare, basato su elaborazioni dell’Istituto per la ricerca sul mare (Icram), nel 2003 si è bloccata la corrente dell’Adriatico, una delle tre correnti che fa da “motore” a tutto il Mediterraneo. Una corrente ascensionale che trasporta i nutrienti dal fondo verso la superficie. “Se dovesse permanere il problema del 2003 – ha detto Pecoraro – il rischio per il Mediterraneo è quello di fare la fine del Mar Nero, un bacino chiuso, che si sta bloccando del tutto e che a 150 metri di profondità è morto”.
Lo stesso, ha riferito ancora il ministro “può accadere al Mediterraneo in caso di assenza di queste correnti ascensionali”. Occorrono quindi, secondo Pecoraro, “misure più forti di mitigazione di questi effetti” anche attraverso maggiori fondi. “Si potrebbe già cominciare a rispettare l’orientamento del Dpef – ha detto Pecoraro – che prevede un miliardo di euro nei prossimi 3 anni per Kyoto, che non sono soldi solo del ministero dell’Ambiente ma che possono essere investiti per piani di adattamento in varie forme, come per esempio il piano casa, e 750 milioni di euro nel triennio per la difesa del suolo, fondo che andrà aumentato”. Si tratta, ha spiegato il ministro, di fondi a rotazione o fondi di garanzia. Altro capitolo è il tetto al 2% per la spesa della pubblica amministrazione. Un’eredità “disastrosa”, la norma Tremonti (“rispetto alla quale c’é l’incapacità anche di questo Governo di uscire da questo ingorgo”) che di fatto, ha sottolineato Pecoraro, blocca la possibilità di usare i fondi pur a disposizione.

Fonte: ansa


Temperature Mediterraneo più alte 2 gradi

settembre 10, 2007

Il riscaldamento globale sta provocando anche in inverno l’aumento delle temperature del Mediterraneo, fino a 2 gradi in più rispetto alla media stagionale, riducendo la capacità di assorbimento dell’anidride carbonica, il principale gas a effetto serra.Lo dice un rapporto dell’Istituto per la ricerca sul mare, presentato oggi in una conferenza stampa al ministero dell’Ambiente.Secondo il rapporto, l’inverno scorso la temperatura del Tirreno è stata superiore di 2 gradi alla media stagionale fino a 100 metri di profondità, con 15 gradi contro gli abituali 13.
Sempre secondo Icram, l’innalzamento delle temperature rischia di “spegnere” definitivamente la corrente del Golfo di Trieste, che contribuisce a muovere le acque del Mediterraneo.
Il cambiamento climatico in corso, aumentando la temperatura della superficie, dicono gli esperti, “ostacola il rimescolamento delle acque nell’intero Mediterraneo”, provocando la scomparsa delle micro alghe che costituiscono la base della catena alimentare marina.
Altra conseguenza importante, indicata dal rapporto, è la diminuzione dell’assorbimento di anidride carbonica da parte del mare.
Una stima “prudenziale”, indica in circa mezzo milione di tonnellate di Co2 il quantitativo sottratto all’atmosfera solo nella zona di mare compresa tra il Golfo di Napoli e le isole Eolie.

Fonte: Reuters


TSUNAMI, il pericolo che viene dal mare

settembre 10, 2007

ona_l.jpgGli “Tsunami” sono gigantesche onde che si muovono a velocità molto elevata e possono essere originate da terremoti o eruzioni sottomarine.
La cosa curiosa è che l’altezza delle onde è inversamente proporzionale alla loro velocità.
Se noi ci trovassimo in aperto oceano, potremmo essere attraversati da uno Tsunami senza nemmeno accorgercene; lo spazio che tali onde hanno a disposizione in questo caso è molto ampio e la loro velocità è elevatissima. Basti pensare che in poco tempo tali onde possono percorrere migliaia di km, provenendo da terremoti lontanissimi.
Quando arrivano in prossimità delle coste, la loro velocità diminuisce e lo spazio che hanno a disposizione pure. Ne consegue un loro innalzamento che può essere anche di 20-30 metri. Quando si abbattono sul litorale distruggono tutto, con danni gravissimi.
L’arrivo di tali onde è preceduto da una sorta di “risacca”; in pratica sembra che il mare si ritiri a causa dell’azione di richiamo dell’acqua da parte dell’onda anomala. Quando si abbatte sul litorale, non si tratta in verità di un’unica onda, ma di una serie di onde via via crescenti che sommergono tutto.
Il meccanismo di creazione di uno “Tsunami” può essere duplice: in occasione di un’eruzione sottomarina, la crosta terreste si muove con moto sussultorio. Tale moto viene trasmesso alla massa d’acqua soprastante che si deforma.
Essendo un fluido, la deformazione in questione si propaga radialmente dal punto di emissione. Ecco che si manifesta un movimento non solo della superficie marina, ma di tutta la massa d’acqua, compresa quella in prossimità del fondale. Infatti, anche in occasione delle tempeste più violente, ad una profondità superiore a 50 metri circa l’acqua non risente di turbolenze e risulta calma. In occasione di uno “Tsunami” la turbolenza arriva anche in profondità, deformando letteralmente il tutto.
Il secondo meccanismo di formazione è un movimento ondulatorio della crosta terrestre in seguito ad un terremoto avvenuto su un continente. L’azione di deformazione, in questo caso, parte dal punto di contatto tra il mare e la placca in movimento propagandosi verso l’esterno. Ecco che un terremoto a migliaia di km di distanza può generare onde di maremoto velocissime che, attraversando gli oceani, possono abbattersi su coste lontanissime.

Paolo Bonino

Fonte: MeteoLive.it


Riscaldamento globale, a rischio Adriatico

settembre 10, 2007

Il riscaldamento globale provoca l’aumento delle temperature dei mari italiani, e rischia in particolare di trasformare l’Adriatico in “una palude salmastra”, avverte un rapporto presentato oggi dal ministero dell’Ambiente.
L’innalzamento delle temperature medie marine fa diminuire anche la capacità di assorbimento dell’anidride carbonica, il principale gas a effetto serra, contribuendo così ad aggravare lo stesso fenomeno del “global warming”.
“Se si ferma l’Adriatico, se si alzano i livelli dei nostri mari, probabilmente avremo problemi di sicurezza”, ha detto nel corso di una conferenza stampa il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, chiedendo che “l’emergenza-mare sia acquisita come emergenza nazionale”.
Secondo il rapporto stilato dall’Icram, l’Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare, l’inverno scorso la temperatura del Tirreno è stata superiore di 2 gradi alla media stagionale fino a 100 metri di profondità, con 15 gradi contro gli abituali 13.
L’innalzamento delle temperature “fa saltare gli equilibri dell’intero bacino” del Mediterraneo, dice lo studio, e rischia di “spegnere” definitivamente la corrente del Golfo di Trieste, una delle tre correnti nord-sud del mare che si stende tra Africa, Europa e Asia.
MUCILLAGINE GIA’ IN GENNAIO
Già nel 2003, anno di temperature record, la corrente fredda che attraversa l’Adriatico e che contribuisce al rimescolamento delle acque del Mediterraneo – essenziale per innescare il processo di fotosintesi marina e dunque per far salire le sostanze nutrienti per i pesci – scomparve, col passaggio della temperatura media invernale da 5 a 13 gradi.
“Senza questo movimento nord-sud – avverte lo studio – l’intero Adriatico si trasformerebbe in un mare fermo e sempre più caldo. Dal mare di Trieste fino alla costa pugliese si creerebbe una palude salmastra dove lo scambio di ossigeno non arriva oltre lo strato superficiale, rendendo inabitabile l’ambiente marino”.
“Il 21 gennaio scorso abbiamo avvistato in Adriatico le prime mucillagini, quando di solito si vedono d’estate”, ha detto nel corso di una conferenza stampa Silvio Greco, coordinatore scientifico dell’Icram.
“C’è il rischio di un ‘corto circuito’ che modifichi la circolazione delle masse d’acqua”, ha aggiunto l’esperto. “L’acqua di superficie non riesce a scendere, quindi non c’è la risalita delle acque profonde ricche di sostanze nutrienti”.
Secondo lo studio dell’Icram, bastano variazioni di temperatura di 0,4 gradi a ridurre la quantità microalghe che costituiscono la base della catena alimentare marina e ad “alterare fino al 50% la ricchezza di specie del nostro mare”.
RISCHIO CO2
Altra conseguenza importante indicata dal rapporto, è la diminuzione dell’assorbimento di anidride carbonica da parte del mare.
Una stima “prudenziale” realizzata dal gruppo di lavoro sul Mare della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici, che aprirà i suoi lavori il 12 settembre a Roma, indica in circa mezzo milione di tonnellate di CO2 il quantitativo sottratto all’atmosfera solo nella zona di mare compresa tra il Golfo di Napoli e le isole Eolie.
E’ la stessa mancata produzione delle microalghe a provocare il minore assorbimento di anidride carbonica, spiega il rapporto. Circa un quarto delle emissioni totali di gas viene assorbito dagli oceani e dalle foreste ma, “se questo meccanismo si inceppa, come è successo per la prima volta quest’inverno nel Mediterraneo meridionale, aumenta la quantità di CO2 in atmosfera”.
In attesa che i paesi industriali riescano effettivamente a ridurre la produzione di gas a effetto serra, come previsto dal protocollo di Kyoto – a cui però non aderiscono grandi inquinatori come Usa, Cina e India – il ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio propone una soluzione di “ingegneria ambientale” per difendere i mari italiani, in tre mosse.
La prima è quella di “aumentare l’apporto dei fiumi”, ripulendoli e mantenendo i volumi di acqua che riversano in mare. La seconda è quella di “ridurre lo scarico di inquinanti” nel Mediterraneo. Ma Pecoraro Scanio chiede anche di “sospendere la pesca di alcune specie che hanno la capacità di contrastare la crescita delle alghe” che rischiano di soffocare il mare. Come il bianchetto, molto amato in cucina ma utile a mantenere l’equilibrio del sistema-mare, avvertono i ricercatori dell’Icram.

Di Massimiliano Di Giorgio

Fonte: Reuters


Scienziati belgi svelano la base di ricerca ecologica per lo studio del cambiamento climatico in Antartide

settembre 10, 2007

20070906_1.jpgIl famoso esploratore belga Alain Hubert ha svelato la prima stazione scientifica ecologica polare, costruita ai fini della ricerca relativa all’impatto del cambiamento climatico sull’Antartide.
La stazione «Princess Elisabeth» mira a diventare una base di ricerca totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico che consentirà agli scienziati di studiare il cambiamento climatico e di suscitare un maggiore interesse pubblico sulla questione, nel rispetto dell’ambiente.
La stazione, del valore di 12 Mio EUR, è una struttura prefabbricata in acciaio inossidabile e legno, progettata in modo aerodinamico. Ospiterà 20 ricercatori in un ambiente interno di 700 metri quadrati. La struttura, finanziata dal governo belga e da partner privati, verrà trasferita dal Belgio al Polo Sud nel mese di novembre.
«La base sarà la prima del suo genere a produrre zero emissioni, pertanto costituirà un modello unico di come l’energia dovrebbe essere impiegata nell’Antartide», ha affermato Alain Hubert, fondatore della Fondazione polare internazionale belga, che studia l’impatto del cambiamento climatico sulle calotte polari.
In totale isolamento, in modo da evitare possibili perdite di petrolio e altri disastri non naturali, la stazione sfrutterà l’energia elettrica prodotta dai pannelli solari presenti sul suo tetto e dalle turbine eoliche. L’acqua verrà riciclata e i rifiuti solidi verranno rimossi ogni due anni.
«Da un punto di vista ecologico è totalmente innovativa, poiché sarà praticamente “a zero emissioni”», ha spiegato il leader di progetto Johan Berte, che ritiene che la base potrebbe diventare un modello per le future stazioni nell’Antartide.
Gli scienziati della base focalizzeranno la loro ricerca sulla climatologia, sulla glaciologia e sulla microbiologia e saranno coinvolti nell’Anno polare internazionale, un’iniziativa globale cui partecipano oltre 50 000 ricercatori che studiano come il riscaldamento globale e altri fenomeni stanno cambiando le parti più fredde della Terra e come questo influisca sul resto del mondo.
L’iniziativa è la più grande del suo genere da 50 anni a oggi e riunisce gli scienziati di 63 nazioni in 228 studi per monitorare la salute delle regioni polari attraverso l’impiego di rompighiaccio, satelliti, stazioni e sottomarini.

Per ulteriori informazioni visitare:
http://www.polarfoundation.org/

Fonte: Cordis


Alessandria d’Egitto rischia di scomparire

settembre 10, 2007

aegitto.jpgSono tanti i turisti che soprattutto dal Cairo scelgono le spiagge di Alessandria d’Egitto per cercare riparo dalla calura estiva. Ma le loro vacanze potrebbero presto diventare soltanto un ricordo. A lanciare l’allarme e’ il settimanale egiziano ‘Al Ahram Weekly’ secondo cui il riscaldamento globale minaccia l’esistenza della perla ‘egiziana’ sul Mediteranno, appena rinnovata dalla riapertura della sua antica e mitica biblioteca. Stando all’ultimo rapporto della Climate Change Division of the Egyptian Environmental Affairs Agency (EEAA) del Cairo il livello del mare su questa costa crescera’ di 30 centimetri entro il 2025. Un vero guaio se si pensa che erosione delle spiagge, inondazioni, riserve d’acqua ed estuari che diventano salati sono fra i danni principali prodotti dalle onde marine.
Alessandria d’Egitto – come sulla sponda opposta del Mare Nostrum la nostra Venezia – rischia quindi di scomparire, inghiottita dall’avanzata delle acque salate. In Egitto –continua il giornale – sono in pericolo anche le altre localita’ sulla costa del Mediterraneo: da Port Said a Damietta a Suez, che rischiano piu’ di quelle del Mar Rosso. ‘’La costa del Mediterraneo e’ piu’ vulnerabile all’innalzamento del livello del mare (rispetto alle coste del Mar Rosso, ndr)’’, dice Mohamed El Raey, docente dell’Istituto per gli Studi e la Ricerca dell’Universita’ di Alessandrina ‘’per il batto che e’ piuttosto bassa’’. E poi ricorda come in questo tratto di costa le onde del mare minacciano anche l’agricoltura.
E’ qui infatti che prosperano le coltivazioni del fertile Delta del Nilo. Le autorita’ del Cairo gia’ pensano di correre ai ripari. Stanno realizzando un piano ‘’per la limitazione dell’erosione’’ delle spiagge – continua il giornale – mirato anche a proteggere le strutture costruite in periodi non sospetti. Un progetto completo in questo senso sara’ presentato entro fine anno alla World Meteorological Organisation. E “se Dio vuole” i fondi arriveranno in tempo, entro il 2008.

Elisa Pierandrei

Fonte: AffariItaliani