”…improvvisamente sentii dentro
di me un’agitazione e in petto
il desiderio travolgente
di un’altra natura.
Non potei resistere a lungo.
“Addio, terra, addio!” dissi.
“Mai più ti cercherò!”
e con tutto il corpo
mi tuffai sott’acqua.”
Ovidio, Le Metamorfosi
Sembra che Jules Verne abbia dato vita al Capitano Nemo lasciando raramente la camera del suo appartamento parigino. La fervida immaginazione dello scrittore ha dato vita ad un capolavoro, ma, probabilmente, i racconti delle esplorazioni degli abissi hanno dato al romanziere una base su cui fondare il racconto.
Le fantasie che la sterminata distesa blu ha suscitato nell’uomo, qualche migliaio di anni addietro, le si possono leggere nell’enorme quantità di storie e leggende giunte fino a noi. In molte sono entrate a far parte di tradizioni popolari, e in altri casi sono divenute colonne portanti della nostra cultura sotto forma di capolavori della letteratura: l’Odissea, gli Argonauti, le Metamorfosi, Moby Dick ecc…
I fondali marini divengono dimora di divinità e creature mostruose. Dio incontrastato del mare e delle acque è Poseidone, circondato da una corte di tritoni, nereidi, e Ippocampi che scortano bighe trainate da cavalli alati. Vi sono esseri mostruosi come Scilla e Cariddi, o le sirene, manifestazione delle insidie del mare, che da benevolo poteva mutarsi in avverso e crudele per gli incauti naviganti che osavano sfidarlo.
L’uomo ha caratterizzato le creature degli abissi di una natura crudele. A parte i delfini, descritti come amici degli esseri umani e delle divinità, di cui, il dio del mare ne ha immortalato l’effige nel firmamento.
Per via dell’ancestrale paura dell’ignoto sono diventate leggendarie creature come il calamaro gigante, il temibile Kraken dei racconti norvegesi. La balena, immortalata da Melville nel suo Moby Dick, o come si legge nella bibbia, il Leviatano, il grande serpente marino:
“Fa ribollire come pentola il gorgo,
fa del mare come un vaso di unguenti.
Dietro a sé produce una bianca scia
e l’abisso appare canuto.
Nessuno sulla terra è pari a lui,
fatto per non aver paura.
Lo teme ogni essere più altero;
egli è il re su tutte le fiere più superbe.”
Giobbe(41, 1-27)
Sempre nella Bibbia, il mare, è in instabile equilibrio con la terra, pronto ad irrompere col suo seguito di creature, che sono la personificazione del caos e del nulla. Il litorale è il confine del grande baratro. Come scritto in Giobbe:
“Fin qui tu verrai, e non oltre; qui si fermerà l’orgoglio dei tuoi flutti.”
Il mare è lo strumento della grandezza divina da scatenare per punire gli uomini, come in Davide, o in Giona e perfino in Mosè.
L’uomo biblico non lo scruta con amore ed è impensabile che lo reputi fonte di vita, nutrimento o ricchezze. A differenza di altre culture, in cui, invece è all’origine di tutto.
In Egitto, in un testo inciso sulla pietra di una piramide si legge:
“Quando gli dei e gli uomini
non esistevano ancora
e non c’era ancora la morte,
nacquero la terra e l’acqua
dal primordiale oceano del caos”
Probabilmente, la grande paura che il mare suscitava nell’uomo era il non riuscire a stabilirne la profondità.
Platone scrisse che il suo fondo era in comunicazione col centro della terra tramite buchi, di diverso diametro, che garantiscono la circolazione dell’acqua, del fuoco e della lava. Attraverso questi antri, alle origini, l’acqua è risalita dalle profondità del pianeta, creando il mare.
E’ difficile riuscire a datare quando l’essere umano abbia effettuato i primi tentativi di esplorazione delle profondità marine. E altrettanto più difficile è stabilire quale sia stata la motivazione. Pura curiosità e innato spirito di avventura? Motivazioni mistiche, generate dal desiderio inconsapevole di riunirsi all’elemento che lo aveva generato? O forse, semplicemente, necessità pratiche di sopravvivenza?
Come narra Jacques Mayol:
“La storia ci prova che non c’è mai stato un inizio dell’immersione o, se si vuole, che la facoltà di immergersi è apparsa con il primo uomo e che essa è proprio iscritta nel suo corredo. In Occidente come in Asia, in Africa come in Polinesia, nel Mediterraneo come nel Mar Rosso, l’uomo s’immerge.”
Fin dall’antichità, per nutrirsi, l’essere umano ha sviluppato particolari abilità e tecniche per potersi adattare alle risorse offerte dall’ambiente circostante. Ciò è avvenuto anche in ambito subacqueo: risalgono a circa 7-10.000 anni fa gli ingenti cumuli di conchiglie ritrovati vicino ai manufatti abitativi di una comunità costiera del Mar Baltico. Identificata dai paleontologi Danesi col nome “Kjokkenmodinger”, ovvero “mangiatori di conchiglie”.
Distanti geograficamente, ma dello stesso periodo, sono i resti umani mummificati scoperti sulle coste di Atacama, in Cile. Tra i corpi erano presenti ossa di balena e ami intagliati da conchiglie. Dall’analisi dei teschi, sono state rilevate delle esostasi, degli ispessimenti degli ossicini delle orecchie. Queste testimoniano l’esposizione all’acqua fredda e ripetute immersioni.Sono opera di artisti Babilonesi gli oggetti, incrostati di madreperla, realizzati circa 4.500 anni fa, rinvenuti a Bisunaya.
In quello stesso periodo, i pescatori cretesi raccoglievano spugne a profondità di tutto rispetto, mentre indiani e cinesi pescavano ostriche, perle e madrepore. Inoltre, era diffusa la pesca del Murex, un mollusco da cui veniva estratta la porpora.
Degli strani piccoli occhiali, probabilmente utilizzati per l’immersione, circa 3.000 anni or sono, sono stati ritrovati nelle isole Salomone. Le lenti sono realizzate da scaglie di carapace di tartaruga, finemente assottigliata, fino a diventare trasparenti.
Manufatti simili venivano adoperati dai pescatori in Persia, nel Cylon, nel Mar Rosso e nell’Oceano Pacifico.
Cenni scritti, che narrano dell’uomo subacqueo, si trovano nel XVI canto dell’Iliade, dove il troiano Cebrione viene paragonato ad uno dei numerosi tuffatori greci:
”Ma se venisse anche sul mare pescoso,
questi cercando ostriche, sazierebbe parecchi,
gettandosi dalla nave, pur col mare cattivo,…”
Il primo reperto archeologico che riproduce uomini sott’acqua risale all’880 a.C.: un affresco assiro, raffigura soldati che eludono i nemici nuotando sul fondo di un fiume, con un otre al collo, collegato alla bocca tramite un tubo.
Erodoto, nel 480 a.C., cita le imprese di Scylla e sua figlia Cyana che, durante la battaglia di Salamina, nuotando sott’acqua con l’ausilio di un giunco cavo per respirare, raggiungono le navi di Serse per tagliarne le cime di ormeggio. La flotta persiana, spinta sulle scogliere dal forte maestrale, subisce gravi danni. Scylla e Cyana nel racconto, tornarono a tuffarsi sui relitti delle navi affondate per recuperarne il carico.
Secondo Tucidide, durante l’assedio di Siracusa, nel 414 a.C., abili tuffatori ateniesi riuscirono ad abbattere le barriere sommerse erette a protezione degli ormeggi delle navi siracusane.
Il primo a descrivere tecniche e strumenti per l’immersione subacquea fu Aristotele. In alcuni suoi scritti parla di cannelli con l’estremità che emerge dalla superficie del mare e dei “lèbàta”: dei catini, all’interno dei quali, portati sott’acqua rovesciati, restava l’aria intrappolata. Questi ultimi venivano utilizzati dai pescatori, i quali, infilandoci la testa, riuscivano a rifornirsi d’aria. Nei Problemi, invece, descrive alcuni malesseri conseguenti l’immersione, accennando a guai alle orecchie e fuoriuscita di sangue dal naso.
La passione di Aristotele per il mondo sommerso coinvolge il suo allievo Alessandro Magno. In alcuni manoscritti conservati nella Biblioteca Nazionale Francese, l’Imperatore, nel 325 a.C., si cimenta nell’esplorazione dei fondali marini.
A quanto sembra, su idea dello stesso Aristotele, fece costruire una botte ben calafatata, rinforzata con lastre di bronzo e dotata di aperture provviste di vetri che consentivano l’osservazione dell’ambiente esterno. La progettazione e la realizzazione della macchina, denominata da Eraclito “Skaphe andros”, letteralmente uomo barca, viene attribuita a Diognetus con la manodopera dei cantieri di Sidone.
Il rudimentale sottomarino, imbarcato su una nave, venne portato sul luogo dell’immersione e rifornito di viveri, lampade ad olio ed indumenti contro il freddo. Insieme all’Imperatore, vi prese posto anche Nearco, comandante della flotta macedone.
In un racconto dove non si comprende la fine della leggenda e l’inizio della realtà, Alessandro Magno narra di avere osservato che sott’acqua i colori spariscono e che diversi abitanti del mondo sommerso, tra cui una sirena, si siano avvicinati alla macchina. Il Sovrano racconta inoltre di aver visto i pesci grandi mangiare quelli piccoli, cosa che rende il fondo del mare molto simile alla terra.
Delle truppe di Alessandro facevano parte gli “utricularii”, veri e propri nuotatori da combattimento. Per respirare sott’acqua utilizzavano un otre pieno d’aria, infatti, il termine deriva dal latino “utriculus”, piccolo otre. Oppure un tubo che raggiungeva la superficie, paragonabile all’attuale boccaglio. E’ loro opera, nel 332 a.C., durante l’assedio dell’isola di Tiro, la distruzione degli sbarramenti sommersi predisposti dai Fenici.
Dall’altra parte del mondo, in alcune cronache giapponesi datate 268 a.C., le “Gisci-Wajin-Den, vengono menzionati i tuffatori “ama”: piccole comunità dove gli uomini, ma soprattutto le donne, si dedicano alla raccolta di ostriche, conchiglie e alghe. Trascorrevano 8-10 ore al giorno pescando in acqua ad una temperatura di circa 10°. Ritrovamenti di cumuli simili a quelli dei “Kjokkenmodinger” testimoniano una somiglianza tra due gruppi etnici lontani nel tempo e nello spazio.
Vegezio, nel “De Rei Militari”, IV secolo d.C., racconta che ai tempi dell’Imperatore Claudio, 1-45 d.C., facevano parte delle truppe romane un corpo specializzato di assaltatori subacquei, chiamati “Urinatores”, dal latino arcaico “Urinari”, immergersi in acqua.
In un passo di Plinio, viene descritta la tecnica utilizzata da questi “uomini rana” per riuscire a vedere il fondo prima dell’immersione:
“Tutto è reso tranquillo dall’olio e perciò coloro che si stanno immergendo ne spargono dalla bocca affinché mitighi la natura aspra(delle acquee)”.
La loro esistenza è documentata anche in altri testi, e confermata da ritrovamenti archeologici. Sembra che la stessa Cleopatra si sia avvalsa della loro competenza per giocare uno scherzo a MarcAntonio, appassionato di pesca con la canna: gli fece appendere all’amo un grosso pesce salato!
Leggendo queste testimonianze si evince che l’avventura subacquea avesse due motivazioni ben definite: alimentari e belliche.
Tuttavia si fanno strada innumerevoli domande e dubbi. E’ ovvio che col suo ritorno all’acqua, l’uomo si è scontrato con problemi dettati dall’adattamento fisiologico a cui si è trovata una soluzione solo in tempi recenti: la mancanza di protezione termica in un ambiente dove la temperatura corporea si disperde 25 volte più velocemente. Occhi non idonei ad una visione acquatica. Gli effetti della pressione sugli spazi d’aria ed infine, ma non meno importante, la totale dipendenza dall’aria, linfa vitale necessaria per i processi metabolici.
Allora è spontaneo chiedersi se l’avventura subacquea fosse destinata ai pochi eletti che, dotati di predisposizioni naturali riuscivano a eludere le barriere naturali imposte dall’elemento mare. Esistevano già conoscenze tali da consentire di effettuare le manovre di compensazione, necessarie ad equilibrare la pressione idrostatica esercitata sul timpano, durante un’immersione? O forse adattamenti fisiologici sono venuti incontro ai nostri antenati nella loro avventura acquatica?
In effetti, in individui di alcune popolazioni indigene del sud America, dedite alla pesca, sono state riscontrate caratteristiche, come ispessimenti del grasso sottocutaneo e funzioni metaboliche rallentate, che li rendono particolarmente idonei a prolungate permanenze in acqua.
Probabilmente la ricerca archeologica porterà alla luce nuove prove dell’immersione umana, magari antecedenti a quelle già in nostro possesso, ma difficilmente riusciranno a chiarire i dubbi che tutt’oggi non trovano risposte.
© P.f.d. & G.d.m