Italia-Unep Map insieme per proteggere il Mediterraneo

settembre 19, 2007

ATENE, 18 SET – Le modalita’ per identificare le azioni piu’ urgenti per affrontare la situazione ambientale nel Mediterraneo e sviluppare strategie innovative per la sua protezione sono stati i temi dell’incontro tecnico svoltosi ad Atene fra esperti del ministero dell’Ambiente italiano e rappresentanti dell’Unep-Map, il programma ambientale dell’Onu (Progetto Mediterraneo di Azione). L’incontro era stato proposto venerdi’ scorso al Coordinatore del Map, Paul Mifsud, dal ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, durante una sua visita ad Atene per appoggiare i Verdi greci alla vigilia delle elezioni. Il ministro italiano, come ha reso noto l’ufficio Unep-Map, ha sottolineato l’importanza di migliorare la situazione nel Mediterraneo da un punto di vista dei cambiamenti climatici attraverso un sostenibile adattamento e attenuazione degli impatti del clima, dando enfasi a sviluppo di energie e tecnologie rinnovabili, eliminazione di fonti d’inquinamento terrestri, controllo coordinato del traffico marittimo, raccolta di dati sulla situazione della biodiversita’ marina e trasferimento in altri Paesi della regione del know-how tecnologico. ”Non vogliamo che il Mar Mediterraneo diventi un ‘nuovo’ Mar Nero” ha detto Pecoraro Scanio. ”Siamo ancora in tempo per prevenirlo ma dobbiamo agire immediatamente. Tutti gli Stati della regione devono convertire le parole in fatti e farlo ora. Vogliamo cooperare con l’Unep-Map, un’organizzazione regionale fortemente affermata, in modo da costruire sulla conoscenza esistente e dare avvio ad azioni concrete”. L’Italia ha suggerito di lanciare un’attivita’ congiunta nel 2008, specifica sulla situazione del Mare Adriatico, dove le correnti marine corrono irregolarmente o si fermano, come e’ successo nell’inverno 2003, per l’aumento della temperatura dell’acqua e la diminuzione del flusso d’entrata dei maggiori fiumi provocate dal cambiamento climatico. L’Icram (Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare) e l’Istituto Dohrn hanno proposto uno studio sui mari italiani. L’Italia auspica inoltre che le parti contraenti della Convenzione di Barcellona (la base giuridica del Map) adottino alla prossima riunione nel gennaio 2008 la Dichiarazione Strategica e il documento sulla Governance per rafforzare lo statuto del Map e il suo ruolo nella regione. Nell’incontro bilaterale con il Map e’ stato inoltre discusso lo sviluppo di nuove aree marine protette a livello internazionale e transfrontaliero nel Mediterraneo.

Fonte: Ansa


La prima diga contro l’effetto serra, la Germania teme le inondazioni

settembre 19, 2007

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Un’immagine dell’alluvione di Amburgo nel 1962

BERLINO – Un incubo minaccia il freddo Grande Nord tedesco: l’incubo della vendetta del mare. Il riscaldamento del clima prepara un futuro di tempeste e inondazioni, e la Germania ha fretta di correre ai ripari. Il piano d’emergenza è nella fase decisiva di costruzione: costruire nuove dighe costiere, e soprattutto alzare e rafforzare le vecchie dighe già esistenti, troppo basse, troppo usurate dagli anni.
Il tempo stringe: nei prossimi cinquanta o cento anni, ammoniscono gli esperti dell’Istituto Max Planck, uragani e inondazioni saranno non solo più numerose ma anche più violente. La vita di decine di migliaia di abitanti della costa sarà in pericolo, e già si lavora in corsa per proteggerla con un’opera ciclopica.
L’emergenza prodotta dal mutamento del clima ha questo volto inatteso, lassù sulla costa dello Schleswig-Holstein e a un passo dalla ricca Amburgo. Squadre di operai specializzati e tecnici sono al lavoro, 800 mila metri cubi di sabbia e una pari quantità di terreno pesante vengono scaricate per la nuova diga costiera.
Il suo corpo centrale correrà lungo la foce dell’Elba, il fiume che dalla Repubblica Ceca si spinge in Sassonia e bagna poi Amburgo, e che già altre volte ha scatenato la sua furia devastatrice. È la vendetta del mare: nei secoli scorsi, come in Olanda, anche nel Grande Nord tedesco gli uomini innalzarono dighe per allontanare le acque e guadagnare più terreno coltivabile o abitabile. Adesso, scriveva ieri il Tagesspiegel in un grande reportage, il mare preme sulla terraferma, ansioso e spietato come chi vuole riprendersi il maltolto. E solo per una coincidenza fortunata, una donna che da ministro dell’Ambiente di Kohl scrisse il Protocollo di Kyoto oggi è Cancelliera, e sfida Bush, Putin e la Cina in nome della difesa del clima.
“Le vecchie dighe sono troppo basse, deboli, erose”, spiega Ruediger Schirmacher, il 58enne responsabile del Planungsstab Kuestenschutz, lo stato maggiore per il progetto d’emergenza di difesa della costa. “Le vecchie dighe”, insiste, “non sono attrezzate a far fronte al mutamento del clima sul pianeta”. Il mio incarico parla chiaro, dice Schirmacher: entro i pochi prossimi anni, tutte le vecchie dighe devono essere alzate di almeno mezzo metro, e rafforzate. Al più presto. Nei prossimi anni, il livello delle acque del mare salirà senza sosta, e gli abitanti della zona costiera devono prepararsi al peggio: a tempeste persino più violente delle catastrofi del passato. Ben un quarto del territorio dello Schleswig-Holstein, lo Stato della Federazione situato tra Amburgo, la Bassa Sassonia e il confine danese, potrebbe finire sommerso.
Si lavora in una corsa contro il tempo, lassù nel freddo, grande Nord di Germania. Si lavora affrontando le proteste della gente del posto, che non ne vuol sapere di cedere case e fattorie per far posto agli sbarramenti. Rifiuta lauti indennizzi, contesta. “Gente difficile”, dice Schirmacher sconsolato.
L’incognita più temibile sono i ghiacci. Col mutamento del clima non si sciolgono più a ritmo costante ma sempre più veloci. Se lo scioglimento in Groenlandia si accelererà, il Mare del Nord nei prossimi cento anni salirà di ben 10 o forse addirittura di 20 centimetri oltre il rialzo già previsto. Per proteggere l’intera costa tedesca, ammonisce Schirmacher, si dovrebbe spendere un miliardo di euro per nuove superdighe ovunque. “Tecnicamente la Germania è in grado di farlo, è questione di soldi”.
E poi c’è la contestazione caparbia dei locali. “Le dighe rovinano il panorama godibile dalle nostre osterie”. L’attaccamento testardo al presente rimuove il ricordo dell’ultima catastrofe, il massacro tra il 16 e il 17 febbraio del 1962. Venti a 130 orari spinsero le acque del mare e dell’Elba le une contro le altre. La prima preallerta arrivò alle 20,30, le dighe stavano già cedendo. Solo a mezzanotte, troppo tardi, la polizia – dagli altoparlanti dei furgoni Volkswagen – lanciò l’allarme evacuazione. In pochi minuti, la tsunami del Mare del Nord investì Amburgo, sommerse un sesto della città che dormiva tranquilla. Trecento furono i morti, migliaia i senzatetto.
Ricordi che potrebbero impallidire rispetto a catastrofi future. Allora, l’eroe del momento fu un giovane politico socialdemocratico, tale Helmut Schmidt. Era ministro dell’Interno della città-Stato, e salvò migliaia di vite violando leggi e Costituzione. Ordinò all’esercito di entrare subito in azione senza aspettare il permesso speciale del governo di Bonn. “Signori generali, alzate il culo dalle sedie! Qui avete compatrioti da salvare, è questione di istanti! Decollino subito tutti gli elicotteri, annullate ogni licenza, mobilitate ogni reparto, o ve ne pentirete, che mi competa o no!”.
Per la prima volta, nel dopoguerra democratico, un leader politico aveva scelto una procedura formalmente quasi golpista ma a fin di bene. Schmidt fece carriera, divenne il ministro dell’Economia che insieme a Valéry Giscard d’Estaing pose col sistema monetario europeo le radici dell’Euro, poi cancelliere. Ancora oggi è l’ex leader più amato dai tedeschi. Ma lassù sulla costa del Nord, l’emergenza resta in agguato.

Di Andrea Tarquini

Fonte: Repubblica.it


Più mercurio nell’aria, più mercurio nei pesci

settembre 19, 2007

Roma, 17 set. (Apcom) – Uno studio americano che sarà pubblicato sulla versione on-line di Proceedings of the National Academy of Science (PNAS) rivela che il mercurio contenuto nelle emissioni inquinanti che finiscono nell’atmosfera, vengono assorbite nell’arco di tre anni dai pesci. E che più mercurio c’è nell’aria, più mercurio c’è nei pesci.
Vincent St. Louis, University of Alberta, Edmonton, Canada e i suoi colleghi biologi, coautori della ricerca, affermano che, se anche si riuscisse ad arrestare immediatamente gli inquinanti contenenti mercurio emessi dalle centrali a carbone e dalle altre industrie, la quantità di metallo liquido tossico assorbita dai pesci comincerebbe a scendere solo tra dieci anni.
Lo studio, METAALICUS, Mercury Experiment to Assess Atmospheric Loading in Canada e negli Stati Uniti, ha coinvolto agenzie governative, università di livello internazionale ed ha implicazioni planetarie.
“E’ il primo studio – commenta l’autore – in cui si associa direttamente inquinamento atmosferico e sostanze tossiche, in questo caso il mercurio, presenti nei pesci”. Uno studio importante, ha detto, perché ha aiutato gli scienziati a capire il meccanismo che sposta il mercurio dall’atmosfera, attraverso le foreste, il suolo e i laghi nel pesce che la gente mangia.
Ora, che per la prima volta una ricerca sperimentale su ecosistemi globali associa in maniera diretta i due fenomeni, la scoperta dovrebbe spingere i politici a varare una normativa che porti ad una rapida riduzione delle emissioni di mercurio da parte delle industrie. “Se c’è meno mercurio nell’aria – conclude lo scienziato – ce ne è di meno anche nel pesce”.

Fonte: Alice Notizie


Secondo alcuni ricercatori nell’Artico sono in corso «drastici cambiamenti»

settembre 17, 2007

20070914_3.jpgGli ultimi risultati di un’indagine scientifica sulle condizioni di ghiacciai e oceano sul tetto del mondo rivelano che l’Artico sta attraversando una «fase di drastico cambiamento».
L’équipe internazionale di ricercatori si trova a bordo del Polarstern, una nave di ricerca dell’Istituto Alfred Wegener per la ricerca polare e marina (AWI). Lo studio contribuirà all’Anno polare internazionale (IPY), nonché ad alcuni progetti finanziati dall’Unione europea.
«Il ghiaccio che ricopre il Mar Glaciale Artico si sta riducendo, l’oceano e l’atmosfera diventano sempre più caldi, le correnti oceaniche stanno cambiando», ha commentato la dottoressa Ursula Schauer capo ricercatrice dell’AWI, nonché membro della spedizione nell’Artico. «Ci troviamo nel corso di una fase di drastico cambiamento nell’Artico e l’Anno polare internazionale 2007/08 ci offre un’opportunità unica per studiare la riduzione dei ghiacciai in collaborazione con ricercatori internazionali.»
L’assottigliamento del ghiacciaio è di particolare interesse per i ricercatori: in vaste zone dell’Artico, il ghiacciaio è dello spessore di solo un metro, misura che equivale al 50% della riduzione dei ghiacciai dal 2001. I modelli attuali suggeriscono che i ghiacciai nell’Artico potrebbero esaurirsi nel giro di soli 50 anni. A bordo del Polarstern i ricercatori stanno studiando la flora e la fauna che vivono sopra e sotto i ghiacciai; quando questi scompariranno, molti di tali organismi si estingueranno.
Altri scienziati a bordo della nave sono impegnati nell’osservazione delle correnti oceaniche e del cambiamento della temperatura. In oltre 100 siti di interesse, i ricercatori hanno rilevato la temperatura, la salinità e le attuali misure.
Dalle misurazioni registrate in una precedente spedizione emerge che la corrente che arriva nell’Artico dall’Atlantico sta diventando più calda. I ricercatori stanno inoltre studiando gli impatti di grandi quantità di acqua dolce portate nell’Artico dai grandi fiumi di Siberia e Nord America. L’acqua dolce sembra agire come strato isolante che controlla il trasferimento di calore tra gli oceani, i ghiacciai e l’atmosfera.
A ottobre la Polarstern deve tornare alla propria base al porto di Bremerhaven (Germania), ma ciò non significa che le attività dei ricercatori nell’Artico termineranno. Nel Mar Glaciale Artico sono stati collocati alcuni galleggianti che nei prossimi mesi raccoglieranno regolarmente dati relativi alle correnti, alla temperatura e alla salinità per trasmetterli via satellite agli scienziati.
Intanto il blog della spedizione fornisce maggiori prove sul surriscaldamento del clima artico, come dimostrato dalla registrazione effettuata quando la nave si trovava nel punto più a nord, 88° 40′ N. «Naturalmente ci eravamo aspettati che anche qui il ghiaccio fosse stato eroso e sciolto come nelle altre regioni che abbiamo visitato nelle settimane precedenti e che ci ha consentito di mantenere una velocità superiore ai 6 [nodi]», scrive la dottoressa Schauer. «Ma ci ha sorpreso un’intera giornata di pioggia a 150 km dal Polo Nord! Nelle ultime settimane, un sistema di bassa pressione dopo l’altro ha portato costante aria calda dal nord della Siberia (addirittura 15 °C all’estuario del fiume Lena) verso l’area centrale del Mar Glaciale Artico. Questo è il modo in cui i ghiacciai continuano a disintegrarsi sotto i nostri occhi.»

Fonte: CORDIS


Il Passaggio di Nord Ovest in barca a vela

settembre 17, 2007

12.jpgÈ stato per secoli il mito e l’incubo di ogni esploratore dei mari, fin da quanto nel 1497 John Cabot tentò invano di affrontarlo. Violato 100 anni fa da Roald Amundsen, il celebre Passaggio a Nord-Ovest nell’Artico era rimasto nel XX secolo una sfida quasi impossibile. Ma negli ultimi anni la situazione è cambiata: un’impresa appena conclusa da un americano, ha dimostrato che lo scioglimento dei ghiacci sta rendendo il Passaggio una passeggiata. Roger Swanson, un ex allevatore di maiali del Minnesota diventato avventuriero dei mari, a 76 anni e al terzo tentativo è riuscito su un ’ketch’ a vela di 17 metri ad attraversare il Passaggio dall’Atlantico al Pacifico. Rispetto ai precedenti del 1994 e del 2005, quando la sua imbarcazione era rimasta intrappolata, Swanson ha trovato una realtà completamente diversa. “Non c’era praticamente ghiaccio, è stato un viaggio bellissimo e senza problemi”, ha raccontato al Wall Street Journal. 
Lo scioglimento dell’Artico sta creando una situazione fino a poco tempo fa impensabile nei mari canadesi a nord del Circolo polare artico. Gli scienziati prevedono che entro il 2020 il Passaggio possa diventare sicuro per le rotte commerciali. Secondo Mark Serreze, ricercatore del National Snow and Ice Data Center americano, dal 1979 il ghiaccio artico si è ridotto in media di 98.000 km quadrati l’anno. “Ciò che osserviamo in questo 2007 – ha affermato lo scienziato – è senza precedenti: è la prima volta che il Passaggio è rimasto interamente libero dai ghiacci”. Dal 1906, quando Amundsen completò dopo tre anni la sua impresa, sono state solo 110 le imbarcazioni che hanno completato con successo l’attraversamento del Passaggio. Di queste, 80 erano rompighiaccio o grandi navi commerciali e solo 30 erano piccole imbarcazioni private. Ma adesso nei piccoli porti canadesi lungo la rotta di Amundsen, come Cambridge Bay o Resolute, stanno arrivando da tutto il mondo yacht di avventurieri pronti a sfidare quello che sembrava un corridoio marino impossibile da percorrere. “Mi sento un pò un impostore, fino a ora non ho avuto alcun problema”, ha raccontato al Wsj James Allison, un britannico la cui barca è all’ancora a Cambridge Bay, in attesa di completare il Passaggio e diventare il primo inglese a riuscire nell’ impresa.  
Un po’ di storia. Lo scioglimento dei ghiacci polari ha tolto l’aurea del mito al passaggio a nord-ovest che per la prima volta potrebbe essere commercialmente sfruttabile. La rotta navale che collega l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico attraverso l’arcipelago artico del Canada fa risparmiare infatti 4.000 chilometri alle navi che che attualmente sono costrette a usare il Canale di Panama. Tra la fine del XV e il XX secolo, gli europei hanno cercato di stabilire una rotta commerciale marina che passasse a nord e ad ovest del continente europeo. Gli inglesi chiamarono la rotta passaggio a nord-ovest, mentre gli spagnoli la battezzarono stretto di Anian. 
Il desiderio di trovare questa rotta motivò gran parte dell’esplorazione europea di entrambe le coste del Nord America. Nel 1539, Hernan Cortès incaricò Francisco de Ulloa di navigare lungo l’odierna Baja California alla ricerca dello Stretto di Anian. L’8 agosto 1585, l’esploratore inglese John Davis entro nello Stretto di Cumberland, Isola Baffin. Nel 1609, Henry Hudson navigò lungo il fiume che oggi porta il suo nome alla ricerca del passaggio. In seguito esplorò l’artico canadese e scoprì l’omonima Baia ma non raggiunse il suo scopo finale. Nel 1847 un altro tentativo di John Franklin andò a vuoto e solo nel 1906 l’esploratore norvegese Roald Amundsen riuscì completare il viaggio anche se in tre anni. La sua rotta non era pratica dal punto di vista commerciale: oltre al tempo che occorreva, alcune delle acque attraversate erano poco profonde. Il primo passaggio in una sola stagione non venne effettuato fino al 1944, quando la St. Roch, uno schooner della Reale Polizia a Cavallo Canadese, riuscì nell’impresa. 
Il passaggio a nord-ovest è il soggetto di una disputa territoriale tra Canada e Stati Uniti. Gli Usa lo considerano acque internazionali, mentre il Canada le considera proprie acque territoriali. Nell’estate del 2000, diverse navi si avvantaggiarono della sottile copertura di ghiaccio estiva sul Mare Glaciale Artico per compiere l’attraversamento. Se il passaggio a nord ovest era una rotta navale mitologica tra gli Usa e la Russia esisteva invece un’autentico percorso terrestre da cui i primi esseri umani giunsero sul continente americano. Durante le ere glaciali e il pleistocene l’attuale stretto di Bering (largo appena 85 chilometri con una profondità massima di 50 metri) non esisteva e l’Alaska era unita all’Asia da una sottile lingua di terra chiamata Beringia. Da oltre cento anni si parla di costruire un ponte o un tunnel sotterraneo per collegare i due continenti. A aprile di quest’anno è stato calcolato che realizzare un tunnel sottomarino, dotato di un’autostrada, una linea ferroviaria e di una condotta per rifornire di gas e petrolio russo gli Usa, costerebbe 65 miliardi di dollari e sarebbe ultimato in 20 anni.

Fonte: LaStampa.it


Nel Mediterraneo il corallo sta morendo

settembre 17, 2007

immagine.jpgLa situazione dei coralli nel Mediterraneo è allarmante. Il cambiamento climatico, l’inquinamento e la pesca distruttiva stanno provocando un rapido deteriormento dei coralli di questo mare. Per questo motivo, con il rapporto “I coralli del Mediterraneo” Oceana e la Fondazione Zegna chiedono una protezione urgente per i coralli, proponendo l’approvazione di un Piano d’Azione specifico che è stato presentato a Palma di Mallorca.
Nel Mediterraneo vivono oltre 200 specie di coralli, gorgonie e anemoni. Sebbene la maggioranza dei coralli che formano le barriere coralline sia scomparsa dal Mediterraneo poco piú di 5 milioni di anni fa, alcune specie sono sopravvissute fino ai giorni nostri, come ad esempio la madrepora pagnotta (Cladocora caespitosa). Gli scienziati sottolineano la grande importanza di questa specie, perché la considerevole longevità delle sue barriere fa sì che, attraverso le registrazioni fossili del corallo e grazie agli esemplari ancora esistenti, si possa conoscere la storia climatica di questo mare. “Il nostro obiettivo è l’adozione di misure, tanto regionali quanto internazionali, per frenare il declino di molte specie di coralli“ – ha affermato Ricardo Aguilar, Direttore dei progetti di Oceana Europa e coautore de “I coralli del Mediterraneo” – dato che solo il 6% circa dei coralli è presente nelle convenzioni internazionali e solo l’1% risulta protetto”.
Il rapporto analizza le principali cause delle massive morie verificatesi negli ultimi anni nelle acque mediterranee di Italia, Francia e Spagna. Tra di esse figurano l’anomalo aumento delle temperature, l’estensione delle zone calde e il prolungamento dei periodi con temperature più elevate. Delle 18 malattie riscontrate nei coralli di tutto il mondo (come lo sbiancamento, la Black Band, l’aspergillosi, ecc.), due sono presenti nel Mediterraneo: lo sbiancamento causato dal batterio Vibrio shiloi e la Fungal-Protozoan Syndrome.
“La prima misura da adottare per la preservazione dei coralli é il divieto dell’impiego di reti a strascico, draghe e altri attrezzi simili su ecosistemi vulnerabili come quelli formati dai coralli”, afferma Xavier Pastor, Direttore esecutivo di Oceana Europa. I coralli più colpiti da queste morie sono le gorgonie rosse (Paramuricea clavata), le gorgonie bianche (Eunicella singularis), le gorgonie gialle (Eunicella cavolini), le gorgonie verrucose (Eunicella verrucosa), i coralli rossi (Corallium rubrum), le gorgonie Leptogorgia sarmentosa, le madrepore pagnotte (Cladocora caespitosa), le madrepore solitarie (Balanophyllia europaea) e le margherite di mare incrostanti (Parazoanthus axinellae). La morte di milioni di coralli nel Mediterraneo a causa delle alte temperature che negli ultimi anni hanno interessato questo mare, è uno dei segnali d’allarme lanciati in un rapporto presentato oggi durante la conferenza stampa. Gli studi sull’impatto climatico prevedono inoltre che nei prossimi anni si alteri il pH del mare e che nel corso di questo secolo si riduca fra il 40 e l’80% la capacità dei coralli di costruire i propri scheletri calcarei.
(foto: www.biolla.eu)

Fonte: LaStampa.it


Acid Ocean

settembre 15, 2007

999.jpgA livello globale, le emissioni di zolfo e azoto nell’atmosfera, provenienti da impianti elettrici e attività agricole, sembrano svolgere un ruolo di secondo piano nell’aumentare l’acidità dell’oceano. Vero, a meno di non considerare le acque costiere poco profonde, dove il loro impatto si amplificherebbe enormemente. La scoperta, fatta dai ricercatori della Woods Hole Oceanographic Institution (Whoi), è stata pubblicata in anteprima sull’edizione online di Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas).
L’acidificazione dell’oceano si verifica quando alcuni composti chimici presenti nell’atmosfera, come biossido di carbonio, zolfo o azoto, si depositano nel mare, diminuendone i livelli di pH. Tale aumento di acidità influisce negativamente sulla capacità di organismi marini, come ricci di mare, coralli e alcune specie di plankton, di rafforzare il proprio esoscheletro, cioè il guscio esterno calcareo, compromettendone la sopravvivenza. “La maggior parte degli studi sull’acidificazione degli oceanisi è focalizzata sulle emissioni da carburanti fossili e di biossido di carbonio, che rappresentano certamente il fattore dominante” spiega Scott Doney del Dipartimento di chimica e geochimica marina, a capo dello studio. “Nessuno però finora si era interessato all’influenza dei depositi di azoto e zolfo sulle acque costiere”. L’eccesso di azoto immesso nelle acque costiere potrebbe contribuire alla crescita sproporzionata di organismi unicellulari (fitoplancton) e di altre piante marine, e portare a dannose fioriture di alghe e all’atrofizzazione dell’acqua, alla creazione cioè di “zone di morte”, svuotate di ossigeno. Il team di ricerca, attraverso la costruzione di modelli teorici informatici, ha cercato di individuare le zone dell’oceano più a rischio. Le aree più colpite risultano essere quelle ‘sotto vento’ rispetto agli impianti elettrici (in particolare alle centrali elettriche a carbone). Gli effetti sono più pronunciati lungo le coste del Nord America, Europa e Asia sud-orientale. Gli sceinziati prevedono che il pH della superficie dell’ceano – che ha già subito una diminuzione di 0.1 unità a seguito della rivoluzione industriale – si abbasserà di altre 0.3-0.4 unità per la fine del secolo: un aumento di acidità del 100/150 per cento.

Fonte: Galileo.it


ITALIA RISCHIA FUTURO BOOM MEDUSE

settembre 13, 2007

436602316_8213ece855_m.jpgROMA, 12 SET – Quando il mare e’ troppo caldo specie come le meduse ne approfittano, pronte a colmare un ‘vuoto’ nella catena alimentare. Anche l’Italia rischia un boom meduse in futuro, come gia’ avvenuto in Spagna. E’ quanto emerge dai lavori in corso alla Conferenza nazionale sui mutamenti climatici, nella sessione dedicata al mare coordinata da Silvio Greco, direttore scientifico dell’Icram (Istituto per la ricerca sul mare). Come effetto delle temperature miti costanti che hanno contraddistinto quest’ultimo anno ”noi siamo convinti che l’alterazione del flusso energetico, il mancato apporto di nutrienti, che nel Tirreno e’ stato del 30% in meno – afferma Greco – abbia creato un vuoto nella catena alimentare, consentendo ad alcune specie ‘opportuniste’ di colmare questi spazi. Un caso eclatante e’ quello delle meduse nei mari spagnoli: nell’estate 2007 ne sono stati stimati 60 milioni di esemplari”. Secondo Greco non e’ escluso che quel che e’ accaduto in Spagna non possa avvenire anche da noi. ”Con le meduse abbiamo l’esempio di come un problema ecologico diventi un problema economico – spiega il direttore dell’Icram – e se l’anno prossimo dovessero persistere situazioni di stress dell’ecosistema dei mari come avvenuto in Spagna quest’estate, questo avrebbe conseguenze anche sull’economia turistica”. In conclusione ” serve investire nella ricerca scientifica, con un piano nazionale. Il costo sarebbe infinitamente minore rispetto al fallimento di dieci giorni di stagione balneare”.

Fonte: ansa


KENYA: NAOMI E BRIATORE NEL MIRINO DEGLI ECOLOGISTI

settembre 13, 2007

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LONDRA  – Naomi Campbell è finita nel mirino di ecologisti e animalisti per un controverso albergo di super-lusso con annesso casinò che vorrebbe costruire assieme ad un illustre ex, Flavio Briatore, a Malindi su un punto della costa kenyana dove tre rare specie di tartarughe depongono le uova.
“L’albergo avrebbe un impatto molto negativo sul santuario delle tartarughe e distruggerebbe anni di attento lavoro per la protezione di queste specie”, avverte Athman Seif, direttore della Malindi Marine Association, in dichiarazioni riportate oggi dal ‘Times’ di Londra. L’associazione con a capo Seif si batte per la tutela ambientale della costa di Malindi e accusa la ‘venere nera’ e il boss della squadra Renault di Formula Uno di voler costruire in barba al piano regolatore locale un albergo da mille e una notte, con quaranta appartamenti e sala da gioco. Il complesso, da 150 milioni di euro, dovrebbe chiamarsi ‘Billionaires Resort’.
“Vogliamo costruire un albergo a sei stelle per le persone top del pianeta”, ha detto di recente la supermodella a supporto di un’iniziativa che a Malindi sembra però raccogliere soprattutto pollici versi malgrado prometta di creare parecchi nuovi posti di lavoro per la gente del posto. “Il nuovo progetto – tuona ad esempio Terry Hill, capo dell’associazione dei residenti di Malindi – è per noi una brutta notizia. Il nostro litorale di sabbia bianca un tempo bello sta diventando una lunga linea di cemento”. “Progetti simili – incalza Stephen Trott, direttore di ‘Local Ocean Trust’, un’altra associazione creata per la tutela di quell’incantevole costa ormai a rischio – distruggono proprio la cosa che la gente viene qui a cercare”. In un’ampia corrispondenza, il quotidiano londinese precisa che a Malindi Briatore gestisce già un albergo – ‘White Elephants’ – detestato dai locali: sarebbe infatti considerato “orrendo” e un vistoso simbolo di un turismo cementizio “da evitare”.
A detta degli animalisti l’albergo ideato dalla joint venture di Naomi con il suo ex-boyfriend italiano sarebbe particolarmente nefasto per tre rare specie di tartaruge (che proprio a Malindi e nella vicina baia di Watamu depongono le uova) e potrebbe essere di ostacolo ad altri due tipi di tartarughe che sostano in quella zona durante la migrazione dall’Africa del sud verso Maldive e Seychelles. La levata di scudi dovrebbe spiazzare in modo particolare l’affascinante e bizzosa Naomi che negli Anni Novanta ha partecipato molto attivamente alle campagne animaliste contro le pellicce al punto da far suo lo slogan: “Preferisco andare in giro nuda piuttosto che impellicciata”. Nella sua corrispondenza il Times non manca di sottolineare che italiani pentiti di mafia si sono sistemati a Malindi – dove già si trova “uno dei più famigerati casinò del Kenya” – e “sono accusati di incoraggiare le attività criminose”.

fonte: ansa 


Pecoraro Scanio, l’Italia va giù, sotto i cambiamenti climatici

settembre 13, 2007

Arretra la costa, a tal punto da dover rivedere le carte geografiche, e il Sud è più esposto. L’Europa deve pagare 50 miliardi di euro per mettere mano ai disastri provocati dal cambiamento climatico e per le opere necessarie per gli adeguamenti.

Il premio Nobel Carlo Rubbia, testimonial del patto per il clima, prima dell’avvio dei lavori della Conferenza sul clima, va sul pesante: “può darsi che che il mondo ce la faccia ad risolvere i problemi ambientali da solo, il problema è che noi siamo nella provetta, siamo in questo mondo e non sappiamo dove andare. Venere ha già un effetto serra che la surriscalda a 400 gradi, Marte viceversa non ha effetto serra ed è gelido. E’ questa finestra di caldo e freddo che ha garantito la vita, ma quando nel 2050 saremo 10 miliardi ad abitare questo pianeta, non lo sappiamo se ci saranno ancora condizioni di vita. Forse faremo la fine delle cavallette”.
Secondo il Ministro Pecoraro Scanio, che ha introdotto i lavori, Italia sarà la prima a pagare gli effetti del cambiamento climatico. Quattro volte è aumentata in Italia la temperatura rispetto alla media mondiale, questo significa meno piogge (5% in meno) che messe accanto alla metà del volume perso dai ghiacciai, alla diminuizione della portata dell’acqua dei fiumi, dà per intero il dramma della scarsità della risorsa idrica che colpisce l’agricoltura ed il turismo.  Ovviamente il caldo incide sulla salute (decessi in Europa tra 8mila e 12 mila). Insomma alla fine sono i cittadini i primi a pagare. Cinque miliardi all’anno per affrontare l’emergenza clima: questo è il conto di Pecoraro Scanio per l’Italia.
Vincenzo Ferrara, esperto del clima dell’Enea, dice che occorre rivedere la impostazione della valutazione di impatto ambientale. Perchè qualsiasi analisi sull’oggi non può più valere sull’esposizione nel tempo di qualsiasi impianto o manufatto rispetto ai cambiamenti climatici dei prossimi cinquant’anni.  Adeguare le strutture e cambiare gli stili di vita. Questo il messaggio della prima giornata della conferenza. Domani il clou della giornata è la tavola rotonda con tutti i ministeri. Sarà interessante il punto di vista di Bersani su tutta questa vicenda.
Il ministro dell’economia risolverà tutto con la solita pacchia emiliana? In fondo, un chilometro su 3 delle nostre coste basse è in arretramento e 33 aree costiere rischiano di essere sommerse dal mare nei prossimi decenni. Che sarà mai?

Fonte: agoramagazine